Articolo di Paolo Rumiz tratto da “La Repubblica” del 30 Novembre 2008

Elva (Cuneo) – Chissà dove sono finiti i capelli della nonna. Non ho mai smesso di pensarci, da quando lei m’ ha raccontato quel pezzo della sua storia, tanto tempo fa. Aveva dodici anni, era la fine dell’ Ottocento e i “piemontesi” erano arrivati in Friuli. Un mattino d’ inverno bussarono al suo portone, le misero un panno sulle spalle e glieli tagliarono. Tutti. Pagarono, poi se ne andarono tra mille moine, e lei rimase davanti allo specchio con una zazzera biondo-cenere lunga appena tre dita. La nonna aveva un buon carattere – si chiamava pure Serena – ma quando si vide pianse e rifiutò di uscir di casa. I capelli non li aveva mai toccati dalla nascita: le erano cresciuti più di un metro e la treccia sciolta arrivava alle ginocchia. Il fatto è che i “Cjavelars” – così li chiamavano in Friuli – pagavano bene, e sua madre era contenta dell’ affare. Con quei soldi comprò a Serena i primi orecchini, gli stessi che avrebbe portato per tutta la vita. Forse ce ne siamo dimenticati, ma alla fine dell’ Ottocento gli emigranti eravamo noi, fratelli d’ Italia, e a portare il “velo” eran le donne di casa nostra. In campagna correvano tempi talebani, i capelli di femmina erano tentazione diabolica e stavano sigillati al riparo dal sole. Per questo e non per altro si conservavano lucenti come quelli delle iraniane sotto il chador, o la lunga chioma sotto il turbante dei sikh, gli immigrati indiani venuti a mungere le mucche d’ Italia. «Capelli», a quei tempi, faceva sempre rima con «belli», come nella canzone della ragazza sorpresa «con i suoi amatori» e spedita a far la «monachella» da mamma e papà. «Giovanotti piangete piangete / han tagliato i miei lunghi capelli / eran biondi eran ricci eran belli / giovanotti piangete con me», versi scolpiti nella storia d’ Italia, ma elusivi: non dicono che le chiome delle novizie se le vendeva il monastero. «I capelli moderni non valgono niente», rideva Serena guardando le scarmigliate ragazze dei tempi nuovi; ed era come se giudicasse un’ epoca. Troppo stress, troppe intemperie su quelle teste, diceva, e sull’ argomento mostrava di sapere il fatto suo. Nel Novecento era emigrata anche lei, in Argentina, lì aveva sposato un muratore del suo paese e la vita le era cambiata in meglio: ma ai lucenti capelli dell’ età perduta pensava sempre. Non si dava pace. Era convinta che sua madre fosse stata in combutta con i “piemontesi” armati di forbici. Briganti dovevano essere, ripeteva, e dovevano anche saperci fare con le donne, se erano capaci di farsi consegnare il capitale che avevano in testa. «Figlio di un cjavelar», si dice tuttora tra Codroipo, San Daniele e Tolmezzo, per insultare qualcuno con l’ attribuzione di una paternità incerta. Chi mai li avrà avuti, pensavo ascoltando la mia vecchia. Un magistrato parruccone della Corte di Londra? Una “mademoiselle” francese? La moglie di un rabbino chassid in un villaggio della Polonia orientale? Che strada aveva fatto quella treccia di un metro e oggi in quale soffitta giaceva dimenticata? Ma soprattutto, mi chiedevo, perché i raccoglitori di capelli venivano dal Piemonte? Per anni mi sono posto la stessa domanda, fino a quando amici cuneesi mi hanno avvertito che in una sperduta valle ai confini della Francia era stato aperto un museo unico al mondo: il museo dei capelli. Elva si chiamava il paese, e per un secolo e mezzo era stato il baricentro internazionale del commercio di capelli. Questo fino a quarant’ anni fa, quando iniziò l’ era del sintetico. Forse lì, agli antipodi delle Alpi orientali, avrei trovato la risposta all’ interrogativo della nonna. Elva ti lascia senza fiato, da qualsiasi parte la raggiungi. Dal basso devi affrontare una vertiginosa strada a tornanti con pochi parapetti e tanti strapiombi. Dall’ alto passi per uno sterrato il Colle di Sampéyre, dove il Monviso sovraccarico di neve “tramonta” oltre il crinale con la Varaita, e ai piedi del viaggiatore si spalanca un anfiteatro in pieno sole, una brughiera tibetana che precipita tra fischi di marmotte verso i primi boschi e un balcone di praterie sull’ orlo della forra chiamata Val Maira. Su quei pascoli con vista, sistemati in faccia ai pilastri delle Alpi Marittime e alle radure di Castelmagno, si dispiega una via lattea di ventotto borgate e quasi altrettanti campanili. Il pianeta Elva è lì, lontano da tutto. Il regno incantato de “lhi pelassiers”. «Aspetti che vado a prendere le chiavi», fa il cuoco della locanda occitana “San Pancrazio”, Edo Lorìa, cui è affidata la custodia del “Museo di pels”. Non passa molta gente a Elva, l’ arrivo di visitatori fuori stagione è un evento, e si apre apposta per loro. Il museo sta in una casa ottocentesca di pietra e legno di larice aggrappata al pendio; la chiamano Casa della Meridiana per via dell’ orologio solare sul muro maestro. «Allora il tempo non era stato ancora unificato e ogni villaggio aveva il suo mezzogiorno», fa notare il geometra Sergio Maffioli, saluzzese, che ha eseguito il restauro dell’ edificio; e con lo sguardo accarezza la sua Roncisvalle alpina, luogo-rifugio di valdesi, occitani, ebrei sefarditi e cavalieri della civiltà cortese. Terra, anche, di leggendarie figure femminili, come la bella Mireille amata dal poeta Mistral, o Griselda, la pastora divenuta principessa dopo aver superato mille crudelissime prove di fedeltà. La porta in abete si apre cigolando e il signor Raina Pietro, classe 1870, della borgata Chiosso Superiore, compare nel buio del seminterrato sullo sfondo di una foto ingiallita dal tempo. Baffi, giacca e cravatta, orologio a taschino con catena d’ argento, si appoggia sul gomito destro a una stufetta in maiolica, e con la mano destra solleva un campione di capelli ondulati divisi per trecce e annodati assieme dalla parte della radice. Lo sguardo è serio, sabaudo, quasi militare; la mano ha il palmo verso l’ alto e le dita sono aperte con una finta noncuranza che tradisce l’ orgoglio di una professione e la fierezza di un benessere conquistato con ingegno e fatica. Accanto alla foto, i ferri del mestiere: i pettini per districare, gli spuntoni per cardare, i catini per la lavatura, lo zaino-armadietto da portare sulla schiena, con gli oggetti “galeotti” per incantare le femmine e convincerle al fatal baratto: merletti, gioie, pizzi e foulard. Fischia un po’ di vento tra la stalla e il fienile, la Casa della Meridiana è piena di spifferi e sussurri che arrivano dal profondo del tempo, le voci dei trapassati che «copavan lo pel de las femna per far de perrucas». «Ah se mi faceva pena tagliare le trecce alle belle ragazze!», ricorda l’ elvese Daniele Mattalia, classe 1897, in una testimonianza di trent’ anni fa raccolta tra i documenti del museo. «Il nostro problema – spiegò il cacciatore di chiome a Ines Cavalcanti, studiosa di cose occitane – era di lasciare sulla testa delle ragazze solo più una corona di capelli. Le ragazze di dieci, dodici anni piangevano~ ma le madri avevano bisogno di soldi e ci facilitavano il lavoro. Quante trecce ho tagliato a Udine! Pagavamo cinque o dieci lire per treccia, ma le lire di allora valevano più dei biglietti da mille di adesso». Ora tutto comincia a quadrare col racconto della nonna. Il miglior bacino di raccolta della merce era lì, tra Veneto e Friuli. In montagna, dove la miseria era nera e i prezzi d’ acquisto migliori. Lì andavano i piemontesi, e lì le chiome erano anche più belle, perché il freddo e il parroco – tosti entrambi – obbligavano le ragazze a tenerle impacchettate nei fazzoletti, nascoste alla luce e agli occhi degli uomini. In Meridione i “pelassiers” non ci andavano nemmeno: i capelli delle “terrone” erano troppo setolosi per il mercato del Nord Europa; buoni al massimo per riempir cuscini. Friuli e il Veneto avevano anche altri vantaggi: tante osterie per mangiare e buoni fienili per dormire. I raccoglitori di capelli non stavano mica in albergo. Viaggiavano in abiti di velluto, che si stropicciavano meno, e dopo cena chiedevano ospitalità ai contadini. Il loro materasso era il “paiòn”, e loro si infilavano vestiti in un sacco che portavano sempre con sé e li aiutava a non sporcarsi troppo. Pare che tutto sia cominciato per caso, alla fine del Settecento. La leggenda dice che due elvesi andarono a Parigi portandosi dietro i capelli delle sorelle e fecero una tale fortuna che tutto il paese si decise a seguirli. La montagna italiana era fatta così, si inventava i mestieri più incredibili per far fruttare le stagioni morte. L’ industriosità montanara era nomade e figlia dell’ inverno. Ogni valle aveva i suoi mestieri, garantisce Fredo Valla, scrittore, regista e romantico conoscitore del mondo occitano attorno al Monviso. Nella Maira erano acciugai, bottai, sellai o suonatori di ghironda. In Varaita carbonai, ombrellari, arrotini; e molti finirono tassisti a Marsiglia. Val Chisone sfornava maitre d’ hotel; quelli della Valle Stura sapevano far ballare le marmotte. I biellesi della Valle Cervo costruivano cattedrali e imbastivano cappelli di coniglio per gli ebrei ortodossi. Da quando scoprì l’ affare delle parrucche, Elva ebbe due raccolti l’ anno: quello del fieno e quello dei capelli. Il secondo era un safari in piena regola. Gli uomini partivano alla fine di agosto, dopo la fienagione, erano almeno cinquecento, e nella stagione fredda si sparpagliavano in mezza Italia per la seconda falciatura. E così a Elva da settembre alla fine di aprile restavano solo le donne. I maschi tornavano entro il 12 maggio, festa del patrono Pancrazio e giorno del mercato dei capelli. Arrivavano carichi come muli. Uno non ci pensa, ma i capelli pesano come piombo. Un sacco arrivava fino a cinquanta chili ed era così prezioso che i piemontesi viaggiavano nel terrore di essere derubati. Per questo si spostavano insieme, e di notte si facevano turni di vedetta. «Quando restauro vecchie case quassù, trovo spesso capelli dimenticati negli interstizi dei muri», racconta il Maffioli. «Valevano così tanto che le donne li nascondevano, attorcigliati e legati come mazzetti di banconote». Persino l’ oro costava meno: con dieci chili ben trattati di capelli potevi comprarti un appartamento. Il tipo biondo-cenere, come quelli della nonna, valeva ancora di più, perché poteva essere imbiancato e venduto ai lord inglesi per le loro parrucche da cerimonia. Così crebbero fortune favolose: come quella di Jean Pierre Isaia che aveva uffici a Londra, Parigi, New York e Buenos Aires, e un atelier con centocinquanta dipendenti in Piemonte. Mezza Elva lavorava per lui a domicilio, per la prima raffinazione del prodotto. Le guerre commerciali e le invidie tra famiglie erano spietate. Si narra che un elvese, incontrato a Londra un concorrente della sua valle, gli abbia fatto una gran festa solo per ubriacarlo e sottrargli il portafoglio-clienti. Fu come rubare un hard disc con la memoria aziendale: spionaggio in piena regola. La torta da conquistare era succulenta, se si pensa che ancora negli anni Sessanta, nonostante il mercato in esaurimento, i registri delle esportazioni segnavano cifre ragguardevoli. Quello della famiglia Bruna annota un incasso di lire 20.245.142 nel 1966, quando un buon stipendio mensile si aggirava sulle sessantamila. Strepitosi i biglietti da visita multilingui nella bacheca del museo. «CESARE RAINA, Human Hair Merchants, import-export». Oppure: «Maison JEAN P. ISAIA, importation exportation-en-gros». La sperduta Elva era la capitale di una rete ramificatissima. Ma con una differenza rispetto a oggi: la manodopera sottopagata non stava in Cina ma in patria. Erano le donne e i bambini della Maira che sgobbavano sulla materia prima. Franco Baudino, cultore di storia locale, se le ricorda ancora la mamma e la nonna che lo cercavano da tutte le parti per chiamarlo a “s’ ciarpir”, districare quei peli infernali sporchi e pressati nei sacchi dopo mesi di raccolta. Ciocche, trecce, boccoli, ricci, toupé, chiome da pettinare, lavare, selezionare, dividere, distendere, allineare uno per uno. Un incubo. «Ma per carità! – sbotta Baudino – per me era come andare in prima linea~ Appena potevo scappavo nel bosco con gli sci», ride, e gesticola così forte che il cane Lessi si mette ad abbaiare davanti alla rimessa dello spartineve, verso le Alpi Marittime coperte da un gelido strato di nubi. Erano duemilacinquecento gli elvesi fino agli anni Cinquanta, quando la montagna non era ancora un parco-giochi e produceva fior di intellettuali e capitani d’ industria. La pianura era terzo mondo al confronto: terra deprivata di nebbia, mezzadria e sfruttamento. Le scuole erano piene di bambini, e i preti non bastavano a dir messa in tutte le borgate. Oggi – mi dice il sindaco Laura Jacopo – a scuola c’ è sola una bambina, gli abitanti sono meno di cinquecento e le mucche sono diventate più numerose degli uomini: settecentocinquanta. Le marmotte, non se ne parla: migliaia. Il resto se l’ è portato il vento.

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